I soliti noti spesso sono i soliti “bravi”
Interessante articolo di Daniele Cernilli che condivido
tanto da trasmetterlo a tutti voi.
La ricerca del nuovo ci fa dimenticare il patrimonio enoico
che possediamo. Ma aprire una bottiglia di Barbaresco di Gaja non fa tendenza.
Vuoi mettere un Pignoletto di San Tizio. È più trendy.
Buona lettura.
I francesi non si fanno remore a portare in palmo di mano i
loro “grandi nomi”. In Italia, nella migliore delle ipotesi, si viene tacciati
di essere noiosi.
Ma i “soliti noti” spesso sono “i soliti bravi”.
I vini più prestigiosi del mondo, le cantine più famose,
specialmente in Francia, dove è di fatto nato il vino moderno, godono di
un’altissima considerazione ed è a loro che ci si riferisce normalmente per
parlare di grande tradizione
.
Se si dà un’occhiata alla letteratura e al
giornalismo enologico internazionale, etichette come quelle di Rousseau, i
grandi Champagne di Krug o di Bollinger, premier cru di Bordeaux come Chateau
Lafite, sono considerati fondamentali anche e soprattutto per quello che
rappresentano proprio in termini di tradizione e di prestigio nelle loro
rispettive regioni.
Non voglio dire che siano i soli vini di rilievo, ma sono
certamente quelli che hanno consentito anche ad altri, che sono arrivati dopo,
di potersi far notare perché, per loro merito, regioni come Borgogna, Bordeaux
e Champagne hanno raggiunto fama e prestigio internazionali.
Da noi le cose non sempre stanno così.
Molti fra critici e
appassionati sono seriamente “fissati” con la ricerca della novità a tutti i
costi, talvolta persino a prescindere da reali valori, e tendono a
sottovalutare coloro che hanno invece nel recente passato dato un contributo
fondamentale alla valorizzazione di zone oggi molto famose.
Penso a cosa
sarebbe Barbaresco senza Angelo Gaja, o Barolo senza i Conterno, i Mascarello e
anche alcuni fra i Barolo Boys, come Elio Altare o Luciano Sandrone. Penso che
Jermann e i Felluga siano stati importanti in Friuli, che i Kellermeister
altoatesini abbiano letteralmente sdoganato quella zona in modo brillante,
penso che i Mastroberardino siano stati decisivi in Irpinia, Marco Caprai a
Montefalco, i Bernetti di Umani Ronchi nelle Marche e Maurizio Zanella in
Franciacorta. Per non parlare dei Ricasoli, degli Antinori e dei Frescobaldi in
Toscana.
Poi ci sono altri, bravissimi, che sono venuti dopo, ma che
avrebbero fatto molta più fatica a emergere se qualcuno prima di loro non
avesse fatto la prima parte del percorso, togliendo arbusti e rovi, e
tracciando il sentiero.
Bene, se si parla, si scrive, si racconta di loro e dei
loro vini qui in Italia c’è sempre qualcuno che ti dice “che noia, parlate
sempre dei soliti noti”.
Ma non è sui “soliti noti” che si basa la tradizione,
quella parola della quale molti si riempiono la bocca senza capirla fino in
fondo?
I vini di Gaja, il Monfortino, il Brunello di Biondi Santi
non sono stati i nostri Romanée Conti, Lafite o Cheval Blanc?
E soprattutto, siamo proprio sicuri che chi viene dopo sia
sempre migliore di chi c’era già?
Qualche volta può anche succedere, ma in
genere, per quanto ho potuto osservare negli anni, le cose non vanno
normalmente così.
E i “soliti noti” spesso sono “i soliti bravi”.
Doctor Wine del 16/07/18
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